Recensione maschile (non maschilista) del libro di Elena Granata, “Il senso delle donne per la città – Curiosità, ingegno, apertura”, Einaudi, 2023

Nel 2020, secondo lo studio dell’istituto israeliano Weizmann per le Scienze pubblicato sulla rivista “Nature”, è successo un avvenimento di portata epocale di cui non ci siamo accorti: la massa di tutti gli oggetti prodotti dall’essere umano ha superato la biomassa vivente, rappresentata dal mondo animale e vegetale, facendo di noi la specie più ingombrante e più infestante del pianeta. Millecento miliardi di tonnellate di artefatti – strade, edifici, elettrodomestici, automobili e oggetti di qualsiasi tipo – contro mille miliardi di tonnellate di vegetazione e animali, umani compresi. Di questa massa antropica fanno parte le città. Quasi il 70 per cento della popolazione italiana e più del 50 per cento di quella mondiale vive in agglomerati urbani, senza per questo star tanto bene, vista la presenza crescente di disagi e di malesseri, sia materiali che immateriali, in particolare per quanto riguarda la salute fisica e mentale e le ineguaglianze sociali. E non basta ribattezzare gli assessorati all’urbanistica “assessorati alla rigenerazione urbana” per aver in automatico equilibri diversi e migliore tra manufatti in cemento e vita dei cittadini, tra interessi privati e bene pubblico. Per fare un cenno all’attualità, la scelta del Comune di Milano di cambiare il nome all’assessorato non ha portato buono tanto che la sua attività di “rigeneratore” è finita sotto il riflettori della Procura di Milano e della Guardia di Finanza: 150 progetti edilizi, per i quali si è proceduto con l’utilizzo della SCIA (la segnalazione certificata di inizio attività), senza percorrere la via normale di una licenza edilizia, sarebbero “nuove costruzioni”, quindi abusi edilizi mascherati da ristrutturazioni. Rigenerazione sembrerebbe far rima con speculazione.

Di come stia cambiando il mondo, di cosa stiano diventando le città e di quanto il futuro del mondo e delle città dipenda soprattutto dalle donne parla l’ultimo libro di Elena Granata (“Il senso delle donne per la città – Curiosità, ingegno, apertura”, Einaudi, 2023). Elena è tante vite in una persona sola: moglie, madre di tre figli, professoressa Associata di Urbanistica al Politecnico di Milano, docente alla SEC (Scuola di Economia Civile) e all’Istituto Universitario Sophia, cofondatrice (con Fiore de Lettera) di Impossible Studio e di PlanetB.it, due agenzie di consulenza per progetti di sviluppo del territorio e di comunicazione civile delle imprese. Non solo: membro del Comitato Scientifico delle Settimane sociali dei cattolici, conferenziere molto apprezzata da parrocchie, centri culturali, festival, copromotrice del Piano B (non un partito, ma uno «spartito», un manifesto per rilanciare il ruolo politico della società civile predisposto dalla crème del cattolicesimo italiano impegnato). E non è ancora finita: scrittrice prolifica, che negli ultimi anni ha pubblicato una serie di libri sulla città (Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo, Giunti, Firenze, 2019; Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo, Einaudi, 2021; con Fiore De Lettera, EcoLove. Perché i nuovi ambientalisti non sanno di esserlo, Edizioni Ambiente, 2022). Le riflessioni di Elena partono da un dato fondamentale che, chiusi nelle nostre tane, tendiamo a rimuovere: lo spazio conta e conta tanto. Influisce sulla nostra crescita, determina il nostro benessere, incide sui nostri stati psichici, ci rende felici o infelici. Però, se guardiamo le nostre città oggi, ci accorgiamo che quella che è cresciuta è la quantità, non la felicità. Elena, da urbanista illuminata, che intreccia le planimetrie con la filosofia, la pedagogia, l’economia, critica quegli architetti (e sono tanti) che pensano solo alla funzionalità di un luogo, senza fare caso alla sua dimensione psico-relazionale. Si procede per specialismi, con una cultura suddivisa per scatole, per silos. Ma queste suddivisioni non sono più adatte ai nostri bisogni, i silos vanno quindi spaccati. Nel precedente libro, Elena aveva auspicato l’arrivo di una generazione di architetti e di architette, o meglio di placemaker, che sviluppino un’intelligenza e un’attività connettiva, in grado di superare i contenitori stagni e di unire tra loro i puntini della mappa e di favorire il passaggio dalla “città macchina” alla “città organismo”.

Ora in questo libro, proseguendo la riflessione, fa entrare in campo le grandi escluse, le donne. L’architettura è stata sempre un mestiere da uomini. Memorabile un aneddoto – citato nel libro – riguardante il famoso urbanista svizzero Le Courbousier. Correva l’anno 1927 e alla neolaureata Charlotte Perriand, che si era presentata nel suo studio con una cartella piena di disegni, aveva riso in faccia dicendo: “Qui non ricamiamo cuscini”. Salvo poi avviare con lei una collaborazione decennale che porterà all’innovazione dell’équipmet d’intérieur de l’habitation, con pezzi talmente moderni da essere in buona parte tuttora in produzione. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia; tuttavia, l’architetta francese Odile Decq racconta che ancora negli anni Ottanta del secolo scorso, durante le riunioni, veniva puntualmente presa per la segretaria e che, una volta corretto l’errore, spesso le veniva chiesto come mai non provasse a cercare lavoro presso un architetto uomo. Oggi la situazione è cambiata ma fino a un certo punto. Così la sintetizza Elena: “Il cantiere resta un universo maschile, dalla direzione alle maestranze; la pianificazione e il governo delle trasformazioni urbane derivano storicamente dall’ingegneria militare prima e dal mondo prefettizio poi, altro mondo decisamente maschile, legato a un tema di controllo, di repressione, di ordine pubblico; il progetto delle infrastrutture e de servizi civili (reti, fognature, impianti termovalorizzatori, centrali elettriche) è un campo dove la gestione della natura viene a viene ascritta al dominio della forza” (pag.99). Lontane dall’architettura e dai cantieri, escluse dalla pianificazione urbanistica, le donne si sono dedicate più spesso al design. Ma ora che c’è un urgente bisogno di un’architettura della vita e delle relazioni, capace di sovvertire antiche abitudini e di proporre nuovi stili, è tempo di dare ampio spazio al “senso delle donne per la città”. Cos’è questo senso? È così diverso da quello maschile? Quando sono le donne a progettare e costruire, le opere risultano effettivamente diverse e migliori di quelle pensate dagli uomini? Passando, ad esempio, in Piazzale Cadorna, a Milano, e vedendo le “capanne” volute da Gae Aulenti – dove Gae sta per Gaetana – non pare che ci sia una grande differenza con altre piazze sistemate da uomini. Però è anche vero che, attraversando Citylife e guardando i tre grattacieli, si riesce ad intuire che quello fatto dall’architetta irachena (naturalizzata britannica) Zaha Hadid è “lo storto”. Quindi l’opera di un’architetta si qualificherebbe per via dei tratti più morbidi? E come la mettiamo allora con lo spagnolo (naturalizzato svizzero) Santiago Calatrava, un maschio specialista di curve? Sovviene infine una domanda ancora più radicale: nell’epoca queer non si dovrebbe andare la distinzione tra generi? A ciascuno, così com’è, verrà chiesto il portare il suo contributo. E nel far questo, potrà, anzi dovrà far emergere anche il femminile che c’è in lui. Elena, che ben conosce queste obiezioni, ha innanzitutto l’intento di non assecondare “una rivoluzione femminile dell’architettura, senza le donne”. “È evidente che l’architettura debba fare propri quei valori e quei principi che un tempo erano ascrivibili all’universo femminile – come la cura della natura, la poesia, la domesticità, il benessere delle persone, la morbidezza degli interni. Spesso facendo a meno del contributo delle donne. Questo passaggio d’epoca e di cambiamento in corso nelle discipline del progetto rischia di acquisire i temi del femminile (che diventeranno universali) ma senza un’attività complice e paritaria di confronto e interazione tra donne e uomini intorno ai grandi temi e alle sfide del nostro tempo. È già accaduto nella moda e persino nel management, come abbiamo visto, senza che questo abbia generato più spazio d’azione per le donne” (pag. 102). Parlare di “senso delle donne” in questa fase storica – per Elena – è come parlare di “donne in carne ed ossa” che non pensano soltanto ad avere posti apicali, ma provano a mettere in discussione i sistemi e i modelli di decisione, di comando e di strategia in chiave più cooperativa, secondo logiche di intelligenza connettiva, producendo pensiero e valore condiviso. C’è bisogno di queste donne in carne ed ossa straniere, quasi aliene rispetto al solito mainstream, che non si limitino alla scala minuta, granulare del design dell’abitare ma che con il loro pensiero pratico siano arditi progettiste di case e quartieri. I dieci capitoli del libro – che alla fine si condensano in “un decalogo per una città condivisa” – contengono, insieme alla critica della “città masochista” e alle denuncia dei “costi della virilità”, tante ipotesi di lavoro. Impossibile riassumerle tutte. Vale la pena citare almeno l’appello finale a pensare le città in modo ecologico. L’ecologia – per Elena – non è solo una serie di contenuti: è molto di più, ha a che fare con l’amore, è un modo di rimettere al mondo il mondo. Pensare secondo natura significa consentire alla mente d’essere libera e flessibile come le piante ed avere meno gerarchia e più potere distribuito, meno velocità, meno spostamenti fisici di persone e di merci, più ancoraggio al territorio, più capacità di usare tutti e cinque i cinque sensi, più attitudine ad entrare in relazione con i luoghi. Ciò permetterà di affrontare la sfida più importante, quella di rendere le città spugnose (sponge cities in inglese), porose, in grado di reagire agli eventi climatici estremi e di utilizzare con lungimiranza le risorse idriche a disposizione. Il surriscaldamento del pianeta chiede fin d’ora pronti interventi per evitare di finire arrosto. Negli ultimi 20 anni, ad esempio, Milano si è scaldata di tre gradi, è come se fosse sprofondata di 500 metri. E potrebbe allora copiare Tokyo, che a detta di Elena (e non possiamo che crederle), non è solo la magacity di oltre 37 milioni di abitanti, fatta di grattacieli, di strade, di metropolitane e treni che tutti abbiamo in mente: è un ecosistema che vive in simbiosi con la sua natura, una metropoli con dentro una montagna, con una foresta di centosettantamila alberi.

Chiuso il libro, resta la piacevole sensazione di aver letto non un noioso saggio per specialisti ma un bel testo di narrativa scritto “in bianco”, con il latte materno (espressione della scrittrice francese Héléne Cixous). Elena mette in pratica le riflessioni di Ursula K. Le Guin, scrittrice statunitense di fantascienza e poetessa, sulla lingua madre e la lingua padre. La prima è la lingua affettiva, quella imparata in casa non per via cognitiva ma per via relazionale, quella che dice le sfumature del nostro sentire; la seconda è quella delle professioni, delle istituzioni, della scuola, dell’accademia, della politica. Quando le donne in carne ed ossa cominciamo a usare la lingua madre anche in pubblico, anche scrivendo libri, anche nel ruolo di architette e urbaniste, fanno un esercizio di sovversione potente e spronano anche le altre (e soprattutto gli altri) a fare altrettanto, a non nascondersi più dietro fredde espressioni politicamente corrette. È di queste “donne del latte”, di questa lingua materna che abbiamo urgente bisogno per superare il deficit di umanità e l’aridità d’animo che penalizzano il nostro abitare. È davvero giunta l’ora del sen(s)o delle donne per la città.

Pubblicato su “Appunti di cultura e politica “ – n. 3/24
(rivista pubblicata dall’Associazione “La città dell’uomo”)