di Davide Rossi e Giovanni Colombo

Alla fine è arrivato Robert Francis Prevost, qui sibi nomen imposuit Leonem XIV.
Lunga vita al nuovo Papa!
Crediamo però che queste riflessioni restino valide per il prossimo conclave del 2050.

Inizia il 7 maggio un conclave che non è mai stato così vario e numeroso: sulla carta ci sono 135 elettori, anche se due porporati hanno già comunicato la loro assenza per motivi di salute e lo “scardinalato” Becciu non parteciperà per i noti motivi, provenienti da 71 nazioni. Gli europei continuano a rappresentare la maggioranza relativa (53) ma gli elettori dell’Asia (23), dell’America del Nord (16), dell’America Latina (21), dell’Africa (18) e pure dall’Oceania (4) faranno sentire il loro peso quando si tratterà di raggiungere il quorum dei due terzi (90). Peccato per la mancanza della Chiesa ambrosiana: non capitava dal 1958, quando arcivescovo era Montini, a cui il “partito romano” dell’epoca aveva negato la berretta, poi sappiamo com’è andata, a segno di quanto la Provvidenza possa correggere palesi ingiustizie. Nel tempo della “sinodalità” questa assenza risulta ancora più incomprensibile: com’è possibile “camminare insieme” escludendo dalla scelta del Vescovo di Roma la maggior diocesi italiana e una delle più grandi del mondo, per numero di fedeli e di preti?

Il toto-candidati impazza, voci e speculazioni più o meno ardite e forbite si inseguono sui social, qualcuno ha avuto anche l’idea di far partire un Fantapapa. Quindi anche noi ci sentiamo autorizzati a dire la nostra. Se fosse per noi, si dovrebbe continuare senza tentennamenti l’opera di Papa Francesco per una “Chiesa in uscita”, amica dei poveri, decisamente schierata per la giustizia e per la pace. Si dovrebbe quindi proseguire spediti sulla “via francescana”, a cavallo tra l’Otto e il Novecento c’è stata una “via piana”: quattro papi con nome Pio, dal IX al XII. Dopo Francesco, toccherebbe a Francesco Abramo, capace di portare pace nelle terre martoriate di Palestina e Medioriente, riannodando la fraternità inscindibile che lega i tre monoteismi, e dopo Francesco Abramo, spetterebbe a Francesco Maria il compito di innalzare finalmente le donne e, con le donne, di mettere mano alla riformulazione della liturgia e della dottrina.

La sensazione invece è che, questa volta, nella scelta del nuovo Pontefice, conteranno in primis non tanto la vicinanza-consonanza con il magistero (e il nome) di Francesco ma soprattutto valutazioni geopolitiche. Conteranno i continenti del futuro della Chiesa: l’Africa, o ancora più probabilmente l’Asia.

Per quanto concerne l’Africa gli ambienti più ostili al magistero bergogliano insistono nel sostenere il cardinale Robert Sarah, peraltro ottuagenario a giugno. Tra gli stessi raccoglie simpatia il cardinale congolese e vescovo di Kinshasa, oltreché stimato teologo, Fridolin Ambongo Besungu, ma questi appare più un candidato di bandiera che una vera scelta, è “giovane” (nato nel 1960) e troppo inesperto della curia vaticana e delle sue complesse dinamiche. Piuttosto, Peter Turkson, cardinale per volontà di Giovanni Paolo II, ghanese a Roma dal 2009, prima Presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace (2009-2016) e poi Prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale (2016-2021), dal 2022 Cancelliere della Pontificia Accademia delle scienze sociali, collaboratore di Francesco nella stesura delle encicliche sociali Laudato sì e Fratelli tutti, con i suoi 76 anni appare per molti aspetti il candidato ideale, capace di superare posizioni contrapposte e divergenti, rispondendo altresì alla sola convinzione che appare unire al momento il collegio cardinalizio, ovvero che eleggere un Pontefice non ancora o appena settantenne sarebbe un po’ come scegliere non un Santo Padre, ma un padreterno, destinato a rimanere tra le mura vaticane per un quarto di secolo e forse anche più.

Il destino della Chiesa cattolica si gioca in ogni caso in Asia, prima per abitanti, oltre quattro miliardi e mezzo di donne e uomini, prima per ricchezza, con oltre il 60% del PIL planetario. Più in particolare, tutti sanno il desiderio di Francesco di arrivare a una ricomposizione della Chiesa cattolica cinese, oggi ancora divisa con vescovi che fanno riferimento a Roma e altri alla Chiesa patriottica, fondata dai comunisti nei lontani anni della Guerra Fredda, ai tempi di Pio XII, il quale non si sottraeva a un magistero politicamente militante e assai anticomunista. Oggi che la Cina Popolare è potenza planetaria, il Vaticano sa bene di dover giungere a una soluzione che rimetta gli oltre venti milioni di cattolici in piena comunione con Roma, un’esigenza pastorale, ma anche politica.

In questa direzione, tra la ventina di asiatici che entreranno nella cappella Sistina, svetta la candidatura del filippino Luis Antonio Tagle. Nato nel 1957, con nonna materna cinese, è diventato vescovo per scelta di Giovanni Paolo II e cardinale per desiderio di Benedetto XVI. Già nello scorso conclave il suo nome ha raccolto consensi, ma in quel momento molti erano i limiti che lo frenavano: troppo giovane, troppo inesperto di questioni curiali e romane, nominato cardinale di Manila giusto una manciata di mesi prima. Papa Francesco l’ha chiamato in Vaticano nel 2019 come Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Dal 2022, con la creazione del Dicastero per l’evangelizzazione, è Pro-prefetto della sezione per la prima evangelizzazione e le nuove Chiese particolari. È sorridente, simpatico, ama fare battute e cantare. In questi anni trascorsi in Vaticano, tra l’altro, ha migliorato di molto il suo italiano.

Il cardinal Tagle sarebbe un ottimo continuatore del pensiero sociale bergogliano orientato ai diritti di casa, scuola, lavoro, salute per tutti gli esseri umani e riuscirebbe con il suo stile mite a risultare gradito anche ai molti curiali, che hanno giudicato eccessivi i ripetuti inviti di papa Francesco alla povertà evangelica.

Il primo pontefice venuto dell’estremo Oriente – molti sono stati i papi mediorientali, ma nessuno ne ha memoria, visti i secoli di lontananza – cercherebbe un nome capace di essere la sintesi del mandato ricevuto, ovvero parlare di povertà senza intralciare troppo l’apparato ecclesiastico, evitando altresì eccessive innovazioni dogmatiche e organizzative. Sceglierebbe il nome del vescovo di Tours (316 circa – 397), già soldato romano e monaco, vissuto sempre in povertà, nonostante la carica vescovile, celebre per aver diviso il suo mantello con un mendicante e anche per questo divenuto santo, prima ancora che per i suoi miracoli, venerato pure dalle chiese ortodosse orientali: Martino. L’ultimo papa con questo nome, Martino V, Oddone della famiglia Colonna, è abbastanza lontano, sono passati ben sei secoli, perché qualcuno se ne ricordi. Eppure è stato un papa importante, un Papa di comunione: durante il suo pontificato, dal 1417 al 1431, ha ricomposto lo Scisma d’Occidente. Un nome poi abbandonato probabilmente per polemica coi luterani, oggi del tutto superata.

Questa, dunque, la nostra previsione: arriva Martino VI, in grado di guidare un’istituzione complessa in tempi burrascosi, ma anche capace, grazie alle origini asiatiche, di raccogliere consensi e simpatie in un continente, l’Asia appunto, in cui la Chiesa cattolica ha chiara la necessità di trovare nuovi spazi. Un vero e proprio Papa inter gentes, forse per taluni ancora troppo giovane con i suoi sessantasette anni, ma certo in grado di regalare un sorriso capace di futuro.

Milano, 29 aprile 2025, festa di Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia